27.11.2019
L’uso di input a basso impatto ambientale, che hanno l’effetto di diminuire le esternalità negative dell’agricoltura, è pratica molto diffusa tra gli operatori di agricoltura sociale
L’agricoltura sociale sta assumendo un ruolo sempre più importante nella società italiana anche a seguito dei recenti passi in fatto di norme e regolamenti che i governi nazionali e le regioni hanno compiuto e stanno compiendo. D’altra parte è una espressione fondamentale della multifunzionalità in agricoltura. Oltre a tutti i valori e significati che si nascondono dietro l’espressione “agricoltura sociale” di più immediata comprensione (valore sociale, economico, salute, etc.) ce ne sono altri deducibili dall’osservazione e dall’analisi delle esperienze. Il tema della sostenibilità ambientale, ad esempio, si lega strettamente alle pratiche di agricoltura sociale. L’uso di input a basso impatto ambientale, che hanno l’effetto di diminuire le esternalità negative dell’agricoltura, è pratica molto diffusa tra gli operatori di agricoltura sociale. Dall’analisi delle esperienze esistenti, riportata in numerose pubblicazioni sul tema, emerge come l’agricoltura sociale sia condotta in aziende agricole medio-piccole, caratterizzate da un’elevata diversificazione produttiva, attente al recupero del paesaggio e della biodiversità, che utilizzano principalmente tecniche produttive a basso impatto ambientale (agricoltura biologica in primis). Inoltre nel più recente rapporto redatto da ISMEA nell’ambito del Programma Rete Rurale Nazionale (Rapporto 2017 Multifunzionalità agricola e agriturismo. Scenario e prospettive), si evidenzia come soltanto una esperienza di agricoltura sociale su dieci adotta tecniche di produzione agro-zootecnica convenzionale, mentre la grande maggioranza (90%) riduce l’impatto ambientale limitando l’impiego di antiparassitari e concimi adottando pratiche agronomiche sostenibili a basso impatto ambientale. Dal medesimo documento risulta che circa la metà delle aziende di agricoltura sociale adottano il metodo di coltivazione biologico mentre un terzo pur senza certificazione lo pratica.
Ancora, i più stringenti principi della biodinamica sono messi in atto per il 7% delle aziende considerate nello studio citato e il 6% combina diversi metodi ecosostenibili di coltivazione. Ciò avviene in quanto, presumibilmente, attività più complesse e diversificate, meno meccanizzate, sono in grado di accogliere più facilmente nuove e più persone in azienda. Queste attività permettono una relazione ancora più stretta con i viventi (piante e animali), che hanno un ruolo fondamentale nei percorsi terapeutici e di reinserimento. La capacità di includere persone, propria dell’agricoltura sociale, favorisce, spesso, un innalzamento delle attenzioni nei confronti di pratiche che hanno un maggiore contenuto in termini di risorse collettive (la cura del paesaggio, la gestione della biodiversità, etc). La meccanizzazione o l’input chimico non possono essere utilizzati (perché troppo rischiosi, o perché non utili da un punto di vista terapeutico) e, perciò, si torna a tecniche colturali basate sulla manodopera. Caso esemplificativo è il diserbo delle aree ortive, tipica attività effettuata spesso in modo manuale in agricoltura sociale, che permette di svolgere attività all’aperto, socializzazione, recupero del “senso del tempo”, fisioterapia nella natura, sviluppo della sfera sensoriale.
Risulta quindi evidente come ad aziende piccole, presenti a volte in territori marginali, che offrono servizi sociali in contesti difficili da un punto di vista logistico, venga riconosciuto anche l’importante ruolo di tutela del paesaggio e dell’ambiente agrario (come testimoniato anche dai contributi concessi dall’Unione Europea), che può a sua volta divenire occasione di pratiche di agricoltura sociale. È il caso della manutenzione di sistemazioni tipiche quali terrazzamenti e muretti a secco e del mantenimento e della manutenzione di siepi e aree boschive. Particolare accezione di questo aspetto è la tutela e il recupero della biodiversità, che spesso caratterizza le attività di agricoltura sociale. In particolare, la biodiversità agraria sia vegetale (uso di varietà antiche/locali/in via di estinzione) che animale (impiego di razze antiche/locali/in via di estinzione).
A testimonianza di ciò, dallo studio effettuato utilizzando i dati dell’atlante sulla biodiversità contadina “I Sigilli di Campagna Amica”, risulta che una percentuale significativa, il 10%, delle aziende censite, che conserva prodotti tradizionali e tipici, svolgono attività di agricoltura sociale. Non è un dato da poco! Inoltre gran parte delle imprese agricole del sociale trasforma, totalmente o in parte, i propri prodotti aziendali (il 73% delle imprese/cooperative agricole ed il 79% delle cooperative sociali agricole), facendo spesso ricorso a tecniche di produzione e lavorazione tradizionali e ottenendo prodotti con forte personalizzazione. Questo rientra nel principio più generale che unisce la conservazione della biodiversità e la tutela della tradizione eno-gastronomica italiana. Varietà dimenticate e razze in estinzione aggiungono valore all’attività sociale in azienda. In primo luogo la parola “differenza” non è più un concetto aleatorio ma diviene oggetto di produzione nonché espressione dei lavoratori. Inoltre la riscoperta di sapori, colori e odori consentono percorsi variegati e davvero significativi secondo le esigenze della persona.
Dal punto di vista della competizione produttiva i prodotti ottenuti da tali varietà/razze non potranno in nessun caso essere comparabili con quelli dell’agricoltura convenzionale: in essi l’agricoltura sociale può sviluppare un mercato con una sua peculiarità. Questa sorta di “effetto collaterale” dell’agricoltura sociale sulla sostenibilità ambientale, può essere interpretato in modo più ampio affermando che le strade della tutela del benessere dell’individuo e della società, non possono evidentemente prescindere dalla tutela dell’ambiente in cui individuo e società vivono. In conclusione una riflessione sul valore economico che hanno la tutela della biodiversità e l’erogazione di servizi alla persona da parte di soggetti agricoli. In particolare, in un periodo storico in cui va reinventato il tessuto produttivo alla luce della crisi e delocalizzazione dei processi produttivi industriali, forse la “terra” e la “persona” possono diventare luogo di accoglienza di lavoratori e di sviluppo di nuove filiere. A fronte della globalizzazione dell’economia, che con tutti i suoi pregi mostra anche dei risvolti problematici, è necessario riscoprire il livello locale della produzione. L’omologazione dell’agricoltura è una faccia della medaglia che dall’altro lato potrebbe mostrare l’omologazione dei servizi alla persona. Sempre più spesso si sente parlare di protocolli, di standardizzazione dei servizi al fine di ottimizzare le risorse economiche. Esiste un’altra via: la riscoperta delle ricchezze del territorio che possono rispondere alle esigenze personali. Si tratta dunque di una risposta concreta alla domanda di cambiamento dei paradigmi dello sviluppo; l’agricoltura sociale ci indica anche che un’altra via è possibile: più umana, più “verde”, più inclusiva.