I Sigilli di Campagna Amica - La biodiversità contadina

05.10.2018

La biodiversità fattore di resilienza nel mondo

Roberto Sensi - Right to Food Policy Officer ActionAid Italia

I nuovi obiettivi di sviluppo globale che, a partire dal 2016, hanno sostituito gli Obiettivi di sviluppo del millennio (Millennium Development Goals), stabiliscono l’ambizioso target di eliminare la fame e l’insicurezza alimentare e nutrizionale dal mondo entro il 2030. Una partenza in salita alla luce del fatto che, come segnalano gli ultimi dati della FAO, il numero di persone che soffre la fame nel mondo è tornato ad aumentare, passando dai 795 milioni del 2015 a 815 del 2016 (11% della popolazione mondiale). Il dato più allarmante riguarda sicuramente l’Africa Sub-Sahariana, dove si registra, in termini percentuali, il dato più elevato. Infatti, il 20% della popolazione (243 milioni di persone) soffre la fame. Le principali cause di questo aumento sono proprio violenti conflitti e gli shock climatici. Inoltre, 155 milioni di bambini sotto i cinque anni – un quarto del totale – è affamato, mentre 55 milioni soffrono di malattie mortali dovute alla denutrizione. Non solo, 2 miliardi di persone soffrono di “fame nascosta”, ossia della mancanza di micronutrienti fondamentali come zinco, ferro, vitamina A, iodio e un terzo delle donne in età riproduttiva soffre di anemia, mettendo a rischio anche la salute dei propri bambini. Infine, 1,9 miliardi di persone nel mondo sono sovrappeso, delle quali 650 milioni sono obese, una cifra che potrebbe raggiungere i 3,3 miliardi di persone nel 2030. Un sistema alimentare che sfama poco e/o male circa un terzo della popolazione mondiale, è un sistema guasto che deve essere cambiato.

A partire dagli anni ’60 l’impegno per la lotta alla fame si è concentrato esclusivamente sull’incremento della produzione alimentare, che in mezzo secolo è triplicata a livello globale, a fronte di una popolazione mondiale che da circa 2,5 miliardi di persone del 1950 ha raggiunto gli oltre 7 miliardi attuali. La sfida era assicurare un incremento della produttività per poter soddisfare i tassi demografici crescenti, accompagnati da un cambiamento dei sistemi nutrizionali quale conseguenza di un progressivo aumento dei redditi, in particolare nei paesi industrializzati. Attraverso un impiego massiccio di risorse pubbliche e con l’intervento dello Stato nei processi produttivi e nell’organizzazione dei mercati, si è ottenuto un incremento consistente dei volumi agricoli puntando più sull’aumento della produttività che su quello delle superfici coltivate. La Rivoluzione Verde, sviluppatasi tra gli anni ‘40 e gli anni ’80, è avvenuta attraverso l’introduzione

massiccia di fertilizzanti e pesticidi chimici e la meccanizzazione dei processi produttivi. Se nel 1961, con una popolazione di 3,5 miliardi di persone, la terra coltivata ammontava a 1,37 miliardi di ettari, cinquant’anni dopo, con una popolazione raddoppiata, la superficie coltivata è aumentata solo del 12%.

Se la sfida di produrre abbastanza cibo per tutti è stata vinta, anche se i dati sulla fame e la malnutrizione evidenziano ancora i limiti profondi dell’attuale sistema alimentare incapace di garantire l’accesso a un cibo sano per tutti, l’obiettivo di aumentare la produzione ha fatto sì che fossero ignorati completamente gli aspetti distributivi, ossia i problemi legati alla difficoltà di accesso al cibo soprattutto per le persone che vivono in povertà: oggi le principali cause della fame sono da ricondursi alla povertà, in particolare nelle aree rurali, all’instabilità dei mercati e ai bassi investimenti in agricoltura, a conflitti e cambiamenti climatici. Inoltre, i danni ambientali determinati da queste politiche produttive sono stati enormi e le loro conseguenze ripropongono cinquant’anni dopo, dal punto di vista della sostenibilità, la capacità dei nostri ecosistemi di produrre abbastanza cibo per sfamare una popolazione mondiale che nel 2050 avrà superato il 9 miliardi di persone. I sistemi alimentari moderni contribuiscono in modo determinante all’aumento delle emissioni di gas ad effetto serra. La produzione agricola conta per il 15% del totale delle emissioni causate dall’uomo, se consideriamo le emissioni lungo tutta la filiera (trasporto, trasformazione e conservazione) il contributo dei sistemi alimentari alle emissioni è di circa il 30%. Di converso le conseguenze dei cambiamenti climatici potrebbero compromettere seriamente la capacità produttiva dei metodi agricoli intensivi. Si stima per il futuro un tasso di diminuzione della produttività del 2% per decade, con cambi di tassi di produttività per alcuni prodotti di base per i Paesi in via di sviluppo oscillanti tra -27% e +9%.

Risulta quindi necessaria una transizione dei sistemi agroalimentari verso una maggiore sostenibilità ambientale e sociale in grado di garantire il diritto all’alimentazione delle persone.

La risposta a questa transizione è lo sviluppo di sistemi agro-ecologici diversificati. L’agro-ecologia è un approccio complessivo alla produzione di cibo per alimentazione umana e animale che preserva la ricchezza dei suoli, degli ecosistemi ed il benessere delle persone. L’agro-ecologia combina tradizione, innovazione e scienza per trarre benefici dall’ambiente, ma mira anche a promuovere relazioni eque e contribuire a una buona qualità della vita di tutti gli attori coinvolti nella produzione e consumo del cibo. Essa rappresenta un’opportunità per realizzare una distribuzione più giusta ed equa della ricchezza, dell’accesso alle risorse e della responsabilità tra gli attori dei sistemi agroalimentari. Tutelando la diversità dei sistemi alimentari si contribuisce anche a favorire diete diversificate migliorando i modelli nutrizionali. Lo sviluppo di sistemi agro-ecologici differenziati è la risposta più efficace alla lotta alla fame. In primo luogo perché è il modello più diffuso tra i piccoli agricoltori che operano su superfici ridotte. L’Africa, ad esempio, conta con circa 33 milioni di piccoli agricoltori, molti di loro donne, l’80% del totale continentale. I due terzi del totale degli agricoltori lavora su meno di due ettari di terra, mentre il 90% coltiva comunque su meno di dieci ettari. La maggior parte di essi pratica un’agricoltura a bassa intensità di risorse prevalentemente locali, facendo un modesto uso di input esterni, in quanto molto costosi. Per la maggior parte degli alimenti prodotti per la propria sussistenza non vengono utilizzati fertilizzanti chimici o sementi modificate e, nonostante negli ultimi decenni il continente abbia aumentato in modo considerevole le proprie importazioni, ancora la piccola agricoltura produce la maggioranza del cibo consumato. Molte delle pratiche agro-ecologiche si basano su tecniche agricole tradizionali adattate agli specifici contesti che hanno aiutato l’agricoltura contadina a portare avanti un uso sostenibile delle risorse non dipendendo dagli input e dalle tecnologie della moderna agricoltura. In secondo luogo, nonostante sia ancora prevalente una narrativa che racconta l’agricoltura su piccola scala come arretrata e improduttiva, le ricerche degli ultimi anni hanno mostrato quanto sia più produttiva di quella su larga scala, se prendiamo in considerazione l’intera produzione e non soltanto la resa della singola coltivazione. L’agricoltura su piccola scala, infatti, diversifica la produzione, utilizzando molti ecotipi, geneticamente più eterogenei delle varietà formali moderne, coltivati con sementi trasmesse da generazioni. Queste varietà offrono maggiori difese contro le vulnerabilità delle coltivazioni e permettono una resa maggiore a fronte di malattie, siccità ed altri problemi. In terzo luogo, le pratiche agro-ecologiche sono la migliore risposta alle conseguenze dei cambiamenti climatici che, lo ricordiamo, colpiscono in prevalenza proprio le aree dove il modello di agricoltura contadina su piccola scala è più diffuso. Gli effetti del cambiamento climatico sulla produttività agricola in particolare nelle aree tropicali saranno devastanti. Se prendiamo, ad esempio, l’Africa Sub-Sahariana, si prevede che le zone aride e semi-aride passeranno dagli attuali 60 ai 90 milioni di ettari, mentre nell’Africa meridionale i raccolti delle coltivazioni irrigate solo dalla pioggia potrebbero ridursi del 50% entro il 2020 rispetto a venti anni prima. Inoltre, l’intensificarsi di eventi meteorologici estremi associati ai cambiamenti climatici come, ad esempio, alluvioni, cicloni, siccità, comprometteranno l’accesso a risorse fondamentali per il sostentamento delle comunità locali come l’acqua, le infrastrutture di base ed altri input agricoli. È utile, infine, ricordare come sia stato stimato che l’89% del potenziale di mitigazione degli effetti dei cambiamenti climatici proveniente dall’agricoltura passi attraverso l’adozione di metodi di produzione agro-ecologici, vale a dire a bassa emissione e alta capacità di preservazione delle risorse. A fronte di queste considerazioni, è importante sostenere il lavoro che da anni gli stessi contadini, le ONG e alcuni governi locali portano avanti a sostegno della diffusione di queste pratiche agro-ecologiche come risposta più efficace alla sicurezza alimentare.

 

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