13.09.2025

Coldiretti, Gesmundo: “Sicurezza alimentare e sovranità non disgiunte.

Cibo laboratorio non risolve fame mondo

Venerdì 12 settembre, in occasione del World Meeting on Human Fraternity, il segretario generale di Coldiretti Vincenzo Gesmundo ha preso parte al tavolo dal titolo “Il futuro della sicurezza alimentare: un approccio fraterno” nella sede Fao a Roma. Ecco l’intervento integrale.

Ho avuto l’onore di coordinare la sessione “Il futuro della sicurezza alimentare: un approccio fraterno”. La parola fraterno credo sia la chiave per uscire dall’approccio “contabile” e freddo che guarda alla ricchezza o al reddito pro-capite, per misurare il livello di benessere di un popolo.

Una visione che non è stata capace di superare il problema della fame e più in generale della povertà nel mondo, di cui l’accesso è al cibo è una delle dimensioni fondamentali, come lo è l’accesso a servizi sanitari minimi.

La visione contabile della povertà ha reso, purtroppo, gli affamati e gli indigenti target di mercato. Gli esempi sono molteplici: gli Ogm, la soluzione a tutti i mali del mondo, hanno trasformato intere regioni povere dell’Africa, del sud est asiatico e dell’America latina, in vaste distese di latifondi che producono per esportare e non per sfamare la popolazione, che da contadina è diventata salariata, o meglio soccidaria.

Questi contadini avranno anche aumentato il proprio reddito ma non sanno dove trovare cibo a prezzi ragionevoli. Sono più ricchi o più poveri di prima?

Guardiamo al tema dei vaccini. Sono un preziosissimo e irrinunciabile strumento per debellare pandemie mortali laddove le condizioni igieniche e di contesto le fanno proliferare, ma se investiamo solo su quel fronte e non miglioriamo le infrastrutture civili e sanitarie il problema resterà, come qualcuno pronto a vendere la soluzione.

La stessa soluzione che imponenti apparati multinazionali vogliono venderci con la favola dei cibi in laboratorio. Anche loro salveranno il mondo, dicono, distribuendo proteine a tutti. Un monopolio del cibo, quello che vorrebbero realizzare, che richiede competenze e investimenti che nessun paese povero può mettere in campo: loro possono solo comprare – non fare – e dovranno sempre dipendere da altri.

Per questo sicurezza e sovranità alimentare non possono essere disgiunti. Nel concetto di sovranità è insito quello di autodeterminazione e, quindi, quello di comunità e fratellanza. Che inevitabilmente contrasta con l’idea che tutto va affidato a tecnologia e mercato. Né nell’uno, né nell’altro campo la fratellanza è il protagonista. Lo è, invece, inevitabilmente il profitto.

Dobbiamo guardare non solo al reddito ma anche alle possibilità e ai diritti delle persone, lavorare per il loro accrescimento, perseguendo un senso di giustizia che non può venire dal mercato. 

Non mancano cibo e proteine: è una questione di distribuzione delle risorse, di governo del presente e di visione del futuro.

L’obiettivo non è solo avere un PIL procapite più alto, non solo sconfiggere la povertà contabile, ma la miseria che è quella condizione che non ti permettere di essere libero.

E, ricordiamocelo, non potrà essere il dominio esclusivo della tecnologia a risolvere i problemi. Questa spasmodica e non regolata ricerca di una via per disaccoppiare definitivamente la sfera umana da quella della natura porterà solo disgrazie. Non possiamo consentire che non ci sia più un limite al perimetro dell’accettabilità morale e sociale di quello che chiamo oggi suprematismo tecnologico, un sentiero che de-politicizza le scelte sul futuro e le affida ai proprietari delle tecnologie, pronti a promuovere soluzioni che ignorano la complessità storica, culturale e sociale dei problemi.  Si riconosce la supremazia degli algoritmi, affidando il futuro dell’umanità a soluzioni inevitabilmente riduzioniste e fideiste. Si prospettano così gli ingredienti perfetti per realizzare futuri distopici: una dieta uguale per tutti, con cibi uguali per tutti prodotti in laboratorio.

Badate bene, il progresso tecnologico è da sempre fattore di sviluppo

umano. Quando però la macchina non sostituisce solo forza e capacità di calcolo, ma incorpora anche obiettivi specifici e si auto-organizza per raggiungerli, allora si corre il rischio di separare sviluppo tecnico e umano. Rischio che stiamo correndo. Avanza un credo cieco nella tecnologia e nei suoi proprietari che è preoccupante, perché contempla l’accettazione di una progressiva deresponsabilizzazione dell’uomo rispetto alle sfide del futuro.

Ma se le macchine e l’architettura di silicio che le governa sono chiamate non ad aiutare ma a surrogare l’uomo nelle decisioni, chi determina i parametri del processo decisionale?

A quali condizioni e con quali meccanismi di controllo, verifica e aggiornamento? Chi determina i fini e le modalità per perseguirli?

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