29.08.2017
All’aumento dei consumi ha contribuito la sempre più diffusa diffidenza verso l’olio di palma, che lo ha reso una valida alternativa per i prodotti industriali
Nell’ultimo anno il prezzo del burro è raddoppiato (+113%) in Italia. L’aumento della domanda è dovuto sia al riconoscimento delle sue proprietà salutistiche, che all’utilizzo come alternativa all’olio di palma. Un grasso che un numero crescente di grandi gruppi industriali sta abbandonando sulla spinta delle massicce campagne di informazione ai consumatori verso il quale hanno maturato una crescente diffidenza (lo evitano 6 italiani su 10). È quanto emerge da recente una analisi della Coldiretti a seguito del picco registrato presso la Borsa di Milano del prezzo alla produzione di 5,04 euro al chilo per il burro pastorizzato nazionale: il massimo da almeno cinque anni. Il burro sta riacquistando popolarità ed è tornato ad essere uno dei grassi più usati in cucina per i suoi molti suoi punti di forza: a differenza delle margarine non è un prodotto chimico, è meno calorico degli oli, non è idrogenato ed è ricco di nutrienti come il calcio, sali minerali, proteine del latte e la vitamina A. Senza contare che è un prodotto del tutto naturale e senza conservanti.
La riscossa del burro è peraltro giustificata da recenti studi scientifici che hanno fatto cadere pregiudizi nei confronti di un prodotto che viene oggi percepito come più naturale e salutare, con l’incremento della domanda di alcuni Paesi a partire dalla Cina. Ma i consumi pro capite di burro sono aumentati nel 2016 dall’Australia (23%) al Canada (+7%) fino agli Stati Uniti (+2%) dove l’Usda prevede per quest’anno un aumento del consumo mondiale di burro del 3% Tra i maggiori consumatori mondiali c’è la Nuova Zelanda con 6,13 chili seguita dall’Unione Europea con 4,71 chili, ma livelli elevati si registrano anche in India con 3,91 chili e negli Stati Uniti con 2,63 chili. Al contrario la produzione di burro in calo del 6% nei primi cinque mesi del 2017 rispetto allo stesso periodo dello scorso anno in Europa.
L’inversione di rotta su latte e burro avviene in un contesto produttivo che negli ultimi dieci anni ha visto praticamente dimezzato il numero di stalle nel nostro Paese, tanto da aver raggiunto il minimo storico di 30mila allevamenti, rispetto ai 60mila attivi nel 2005. Un fenomeno causato dal crollo del prezzo pagato agli allevatori che è sceso per lungo tempo addirittura al di sotto dei costi di alimentazione del bestiame. Una situazione insostenibile che richiede una decisa inversione di tendenza, poiché da salvare ci sono i 120mila posti di lavoro nell’attività di allevamento da latte che generano lungo la filiera un fatturato di 28 miliardi, la voce più importante dell’agroalimentare italiano dal punto di vista economico e di immagine del Made in Italy. Sono 488 i formaggi tradizionali censiti dalle Regioni che si aggiungono ai 49 a denominazione di origine protetta (Dop) riconosciuti dall’Unione Europea, ai quali è destinato circa la metà del latte consegnato dagli allevamenti italiani. La chiusura di una stalla non significa solo perdita di lavoro e di reddito, ma anche un danno ambientale con quasi la metà degli allevamenti italiani che si trova in zone montane e svantaggiate e svolge un ruolo insostituibile di presidio del territorio dove la manutenzione è assicurata proprio dal lavoro silenzioso di pulizia e di compattamento dei suoli effettuato dagli animali.