Il cibo giusto

LE RICETTE DEI NOSTRI CUOCHI CONTADINI

05.11.2016

Cultura, storia e tradizione: il cibo racconta Pompei

Inaugurato, alla presenza del Ministro Franceschini e del presidente della Coldiretti Moncalvo, il progetto della Coldiretti “EATSTORY - da noi il cibo ha una storia”. Degustazioni e vendita dei prodotti lavorati come si faceva nell’antichità?

Un progetto unico, che ha visto oggi il cibo diventare racconto all’interno di uno scenario da brividi: gli scavi archeologici di Pompei. E’ partito il progetto della Coldiretti “EATSTORY – da noi il cibo ha una storia” che da oggi alla fine di quest’anno, punta a fare rivivere ai visitatori degli scavi atmosfere e sensazioni del passato con la degustazione di pietanze o l’acquisto di prodotti preparati secondo le tecniche in uso all’epoca dell’eruzione.
E Pompei supererà abbondantemente i 3 milioni di visitatori, conquistati anche grazie all’arrivo del cibo degli antichi romani per far conoscere il legame che unisce la storia dell’Italia al proprio patrimonio enogastronomico.
A raccontare l’ambizione a affascinante progetto, è stato il presidente Roberto Moncalvo in occasione dell’inaugurazione avvenuta insieme al Ministro dei Beni culturali Dario Franceschini.
Ogni martedì e sabato (per i prossimi 3 mesi), negli orari di apertura degli scavi alla Casina dell’Aquila, gli agricoltori di Campagna Amica offriranno cibi e prodotti della zona preparati secondo le ricette dell’antica Pompei, oltre a offrire l’opportunità di apprendere e partecipare direttamente ad attività di coltivazione, trasformazione e conservazione dei prodotti locali.
  
Menù Pompeiano, sapori da rivivere. La degustazione di un tipico menu Pompeiano preparato secondo le ricette e consumato secondo le modalità del passato nel contesto storico originale ha inaugurato la rivoluzionaria iniziativa della Coldiretti che traccia un nuovo percorso di sviluppo per il turismo in Italia che ha già fatto segnare un positivo aumento della spesa degli stranieri del 2,5% nel periodo gennaio-luglio 2016, rispetto allo scorso anno, secondo elaborazioni su dati della Banca d’Italia. Come antipasto (gustum) sono stati serviti “scriblita”(focaccia con spezie) “caseus” (ricotta) “caseus caprinus” (formaggio di capra), “brassica pompeiana“ (cavolo pompeiano in salsa di garum) e “cucurbitas” (zucca fritta). La portata principale (mensae primae) è stata a base di “porcellus assus“ (maialino arrostito), “esicia omentata” (polpette avvolte nell’omento, ovvero la rete di maiale) e “patina de apua fricta” (torta di acciughe fritte) mentre come dolce e frutta (mensa secondae) sono stati serviti “mala” (mele annurche), “mala granata” (melograni), “pira” (pere), “uvae”(uva), “caricae” (fichi secchi) del Cilento e “basynias” (struffoli) come dolce, ma anche noci, nocciole e mandorle campane. Il tutto innaffiato da vino (“vinum”) “falernum rubrum” (falerno del massico rosso) e “vinum passim” (vino passito) e “panis Pompeii”.
  
Cibo è cultura, storia e tradizione. L’immagine dell’Italia è profondamente legata al concetto di cultura inteso non solo come patrimonio artistico-culturale-paesaggistico, ma anche gastronomico, artigianale, folkloristico ecc. Emerge, sempre di più, un forte interesse nei confronti di quello che si definisce l’Italian Style of Life con un’attenzione sempre maggiore alle tradizioni e al patrimonio enogastronomico del nostro Paese. Secondo lo studio “Io sono cultura – 2016 – L’Italia della qualità e della bellezza sfida la crisi” a cura di Symbola, al Sistema Produttivo Culturale e Creativo si deve il 6,1% della ricchezza prodotta in Italia: 89,7 miliardi di euro. Per l’effetto moltiplicatore del settore sull’economia per ogni euro prodotto dalla cultura, se ne attivano 1,8 in altri settori. Gli 89,7 miliardi, quindi, ne “stimolano” altri 160,1, per arrivare a quei 249,8 miliardi prodotti dall’intera filiera culturale, il 17% del valore aggiunto nazionale, col turismo come principale beneficiario di questo effetto volano. Sempre secondo lo studio, il Sistema Produttivo Culturale dà lavoro a 1,5 milioni di persone, il 6,1% del totale degli occupati in Italia.
    
Pompei, numeri record. Un risultato significativo quelle delle presenza nello storico luogo, con un aumento di ben oltre il 30% nel numero di visitatori in cinque anni che consolida l’area archeologica di Pompei al secondo posto tra i musei italiani più visitati dopo il Colosseo e il Foro Romano. Un spinta per il sistema produttivo culturale nazionale che produce nell’intera filiera 249,8 miliardi, il 17% del valore aggiunto nazionale, e dà lavoro a 1,5 milioni di persone, il 6,1% del totale degli occupati in Italia, secondo elaborazioni Coldiretti su dati Symbola.
“Un’opportunità unica al mondo per l’Italia dove cultura e cibo sono le principali leve di attrazione turistica strategiche per il rilancio dell’economia e dell’occupazione nel mezzogiorno ed in tutta Italia”, ha affermato il presidente Moncalvo, nel ricordare che si uniscono due eccellenze del Made in Italy che può contare sul primato mondiale nell’enogastronomia e sul maggior numero di siti inclusi nella lista del Patrimonio Mondiale dell’Umanità (51 siti), davanti alla Cina (50) e alla Spagna (48), su un totale di 1052 siti (814 culturali, 203 naturali e 35 misti) presenti in 165 Paesi del mondo.
      
IL MENU TIPICO DEI POMPEIANI
Il pesce il piatto forte ai tempi di Pompei. Secondo lo studio della Coldiretti, tra i piatti cult di Pompei c’era il gàrum, una salamoia di pesce lasciato fermentare al sole e conservata sotto sale utilizzata per condire un’infinità di vivande e, tra le bevande economiche, la più diffusa era la pòsca, costituita da aceto diluito in acqua mentre i panettieri sfornavano almeno dieci tipi di pane nei 35 forni censiti nella città. 
Immancabile sulle tavole dei pompeiani era una sorta di colatura di alici ancora molto diffusa in Campania che si preparava con le interiora delle sardine, che venivano mescolate con pezzi di pesce sminuzzati, uova di pesce e uova di gallina per poi essere lasciata al sole e nuovamente pestata per trasformarla in una poltiglia omogenea. Dopo sei settimane di fermentazione, il prodotto ottenuto, detto liquamen, veniva posato in un cesto dal fondo bucato e mentre un residuo, considerato commestibile e noto col nome di hallec o faex, colava dal cesto, vi rimaneva il prodotto finito detto garum con declinazioni diverse a seconda del pesce usato.
  
Colazione da “perdere” il fiato. Appena alzati, la mattina, i pompeiani facevano una prima colazione (jentaculum) a base di pane con aglio e formaggio, oppure datteri, uova, miele e frutta, e a volte anche di carne, dal momento che la colazione costituiva uno dei due pasti principali della giornata. A volte i cibi del jentaculum erano gli avanzi che ogni invitato aveva il diritto di portare via dal banchetto della sera precedente. I bambini, andando a scuola, si fermavano lungo la strada e comperavano biscotti appena sfornati (adipata). Verso mezzogiorno, poi, seguiva uno spuntino leggero (prandium) tanto per arrivare non troppo affamati all’ora della cena. Era in genere un pasto freddo e rapido, con legumi, pesce, uova e frutta. Il pasto principale in tutto il mondo romano era costituito dalla cena, più o meno abbondante, consumata ad iniziare dal pomeriggio, tra le due e le tre, dopo essersi recati alle terme. Dopo la cena seguivano le bevute in un triclìnio con il vino che era la bevanda più diffusa e veniva prodotto in due qualità: bianco e rosso, tagliato con acqua e aromatizzato con miele, spezie o erbe, secondo la Soprintendenza di Pompei.
  
Per i più poveri un unico pasto. Per le famiglie più povere la cena costituiva l’unico pasto della giornata. Gli strati inferiori della popolazione consumavano cibi e bevande estremamente semplici, cibandosi di pane nero, di qualità scadente (panis plebeius) e raramente di carne, più spesso di piccoli pesci poco pregiati, salati e conservati (gerres, menae), economicamente accessibili; tra le verdure, quelle meno costose erano i cavoli e i porri. Appartenevano al ricettario della cucina povera salse fatte con erbe pestate e condite con olio; né mancava il formaggio. Nelle classi medio-alte il cibo non aveva solo la funzione di nutrire, ma era simbolo di una condizione sociale privilegiata, dove l’opulenza della mensa costituiva segno di prestigio sociale. Ai ricchi era riservata la prerogativa del banchetto, che diventava, così, il momento più importante della giornata e si svolgeva secondo una precisa ritualità che era la medesima a Roma e nelle altre città dell’impero. I cibi più ricercati – conclude la Coldiretti – erano preparati con la massima cura dai cuochi e nelle più ricche dimore non potevano mancare strutture per l’allevamento di pesci (piscinae), di uccelli selvatici (aviaria) nonché di selvaggina (leporaria).

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